Una costante curiosa da osservare durante un qualsiasi viaggio in auto dalla regione Marche verso il nord Italia è senz‘altro il gran numero di tir, carichi di fieno, che quotidianamente si dirigono verso le regioni più settentrionali del nostro paese. Tonnellate di foraggi destinati, nella maggior parte dei casi, a quei tanti produttori di parmigiano reggiano e grana padano che costituiscono un’eccellenza tutta italiana. Una situazione, però, che se da un lato può anche inorgoglire i nostri agricoltori locali che contribuiscono a quella filiera, dall’altro ha anche delle pesanti ripercussioni in altri settori. Perché, se quando si parla di produzione di grano duro o di girasole le Marche possono vantare numeri significativi, lo stesso non può dirsi per il comparto zootecnico.
Solo per rendere l’idea, nel 2021 le Marche erano la penultima regione per numero di bovini da latte allevati con 5.892 capi (ultima la regione Liguria per motivi orografici facilmente comprensibili) contro i 255.720 capi dell’Emilia-Romagna o i 536.547 della Lombardia. Anche la vicina Toscana ed il confinante Abruzzo, con territori ed agricolture simili alle nostre, sono riusciti a fare meglio con una media di circa 15.000 capi. Il tutto nonostante la presenza di primarie realtà di trasformazione quali la TreValli od il gruppo Sabelliche rappresentano un’eccellenza tutta marchigiana.
E se i motivi di una tale debacle sono certamente antichi e di varia natura (scelte politiche sbagliate fatte negli anni, valutazioni errate degli operatori del settore, mutamento delle condizioni economiche, etc..) le contromisure attuali sono state altrettanto modeste. Ed in una tale situazione già provata, l’elemento costo e disponibilità della materia prima fondamentale per produrre latte – vale a dire il fieno – gioca un ruolo fondamentale.
Mediamente gli allevatori marchigiani hanno pagato nell’ultimo anno fra i 20 ed i 25 euro al quintale il foraggionecessario per alimentare i propri animali (fieno di primo taglio, erba medica, loietto). Un aumento senza dubbio dettato dai famosi “costi” della guerra (aumenti di gasolio, concimi, reti e filo per imballatrici) ma che comunque ha confermato un trend già avviato negli anni precedenti. Infatti, se con oltre 70.000 ha le Marche sono la seconda realtà italiana per coltivazione di foraggere estensive, tutto questo fieno è quasi esclusivamente destinato al bestiame di fuori regione se non addirittura ad alimentare, una volta essiccato, cavalli e cammelli degli Emirati Arabi. Sembra un paradosso, ma di fronte ad una alta richiesta nazionale di tale prodotto per i produttori di foraggi è certamente più allettante caricare il proprio fieno su camion e navi spuntando un prezzo decisamente migliore rispetto che venderlo sul territorio.
In tutto ciò, a farne le spese sono proprio quelle poche, eroiche, stalle che ancora oggi provano a restate sul mercato e sono costrette a farlo con costi elevati e con profitti quasi nulli.
Perché mentre il latte prodotto per il Parmigiano viene conferito mediamente ad 80 centesimi al litro, quello munto nelle Marche non supera gli 0,55 euro. Di fronte ad una remunerazione così diversa è facilmente intuibile come chi realizza un prodotto con un valore aggiunto ben più remunerativo può anche permettersi di pagare il foraggio qualcosa in più. Una corsa al rialzo comunque svantaggiosa per tutti. Una sorte di circolo vizioso che penalizza gli allevatori, locali e non, ma anche i produttori che si vedono costretti a viaggi sempre più lunghi ed onerosi per vendere il fieno e non ultimo anche l’ambiente (tir carichi con decine di quintali di foraggio che vanno su e giù per lo stivale non sono certo eco friendly).
Non vi è, ovviamente, intenzione di criticare delle legittime scelte imprenditoriali di chi ha il diritto di lavorare e vendere i propri prodotti dove meglio ritiene, ma certamente in un mondo spesso fatto di contributi e sovvenzioni pubbliche di dubbia utilità questo potrebbe essere un settore dove intervenire.