Cento milioni di euro sono i soldi che hanno perso gli agricoltori marchigiani nell’ultimo triennio per il crollo del prezzo del grano duro, la principale coltura della regione.
A peggiorare la situazione scelte politiche che appaiono del tutto incoerenti da parte di chi dovrebbe avere a cuore il sistema agricolo regionale.

Ecco l’intervista a Il Resto del Carlino (del 2 Giugno 2019)del direttore del Consorzio Agrario di Ancona Andrea Novelli.

DIRETTORE Andrea Novelli presentando i dati del bilancio 2018 del Consorzio Agrario di Ancona, l’unico delle Marche, chiuso con un fatturato di oltre 64,5 milioni con +1% rispetto all’anno precedente lei ha denunciato la
grave situazione in cui versa l’agricoltura marchigiana, ci può spiegare meglio?
«Dai dati Istat – spiega il direttore del Consorzio Andrea Novelli – i seminativi nelle Marche rivestono un ruolo predominante, con oltre 214 mila ettari, di cui 130 mila destinati a grano duro. Solo a titolo di esempio vigneti e oliveti non raggiungono insieme i 30 mila ettari. Siamo la terza regione per grano duro dopo Puglia e Sicilia, ma non riusciamo più a venderlo, pagando sia la frammentazione di aziende agricole e stoccatori, sia l’assenza di logistica. Il risultato è che secondo le rilevazioni settimanali dell’Ager di Bologna, nel periodo 2016-2018 il prezzo medio di questo cereale è stato di 8,3 euro al quintale più basso rispetto al triennio precedente. Considerato che la produzione annuale del grano duro marchigiano è mediamente pari a circa 4 milioni di quintali, è purtroppo facile calcolare il vuoto finanziario che si è venuto a creare nel triennio per gli imprenditori agricoli del territorio, cioè quasi 100 milioni di euro».
Con quali conseguenze?
«Le ripercussioni negative sono molteplici: sofferenze finanziarie nel rispettare le scadenze di mutui e pagamenti, riduzione dell’impiego di mezzi tecnici, abbandono della coltivazione nelle aree meno produttive,  riconversione al biologico sì, ma troppo spesso solo per puntare al contributo pubblico. Non basta».
Cos’altro?
«L’Autorità Portuale, d’accordo con il Comune di Ancona, ha revocato la concessione sui silos che negli anni ’60 imprenditori lungimiranti come Ferruzzi e Angelini e l’intelligenza degli amministratori del tempo avevano realizzato comprendendo la necessità di organizzare un polo logistico per le produzioni agricole marchigiane. Dei raccolti 2015-2016 la quota di grano duro destinata al porto di Ancona, per essere trasferita da importanti operatori nazionali e esteri in mercati interessati, è stata molto rilevante, oltre il 30% della produzione complessiva. Oggi i silos vengono demoliti dopo essere stata disincentivata la volontà di chi voleva investire e rendendo quasi impraticabile il porto. È triste dover rilevare come ancora una volta non si intravede una politica agricola costruttiva della Regione, che tenga conto della reale situazione economica del territorio, che riconosca come il grano duro sia la coltura fondamentale per la vita delle aziende agricole. La smetta dunque di inseguire riconversioni fantasiose e prive di prospettive, ma dia il via alla progettazione di un piano produttivo vero. Solo così l’agricoltura marchigiana potrà tornare ad avere un futuro».
Quali soluzioni proponete?
«Riteniamo possa essere interessante riportare alcune osservazioni, basate su dati Ismea, a proposito dell’incidenza del prezzo del grano duro nella filiera della pasta e, purtroppo, di quanto poco conti nella realtà il valore del prodotto agricolo. Il prezzo al chilo della pasta di semola alla distribuzione ha un variabilità molto limitata e mediamente è pari a 1,25 euro al chilo».
Questo cosa significa?
«Che con i prezzi medi del grano duro degli ultimi due anni a 0,21 euro al chilo per la migliore qualità al magazzino di stoccaggio, il rapporto tra il valore della materia prima e quello del prodotto finito è pari al 16,8%. In altre parole, se anche il prezzo del grano duro si impennasse di ben 100 euro a tonnellata significherebbe passare dalla morte alla vita per l’intero comparto cerealicolo, l’aumento diretto sul prodotto finito sarebbe appena 0,0168 euro al chilo, cioè 0,00168 euro per piatto di spaghetti o, considerando il consumo medio pro capite di 23,5 kg di pasta all’anno, con un incremento di spesa a testa di ben 39,5 centesimi all’anno. Insomma, i consumatori possono stare tranquilli: gli agricoltori non affameranno mai la popolazione».

Vittorio Bellagamba