Il 3 luglio si è tenuto un interessante convegno in un luogo straordinario, l’Abbazia benedettina di Sant’Urbano di Apiro costruita nell’XI secolo, perfettamente restaurata dalla Loccioni, l’azienda marchigiana che rappresenta la punta avanzata a livello mondiale delle tecnologie di misurazione e di controllo. Il Convegno era organizzato da ARCA una società impegnata sul tema della Rigenerazione dei terreni impoveriti dai decenni di colture industriali e di concimazioni, forse, esagerate. Soci di Arca sono Bruno Garbini, pioniere già dagli anni ’90 del tema della rigenerazione territoriale, Giovanni Fileni, prima azienda italiana degli allevamenti avicoli bio ed Enrico Loccioni che applicherà i suoi sistemi di misurazione e controllo per monitorare il settore agricolo e i suoi cambiamenti. L’ occasione dell’incontro è stata la presentazione di uno studio che ARCA ha commissionato al Consorzio AASTER diretto da Aldo Bonomi, che da decenni studia l’evoluzione delle economie e dei distretti soprattutto dei territori adriatici.
Obiettivo dello studio è quello di verificare come un processo di Rigenerazione Territoriale fisica (ma anche culturale, ambientale e quindi anche economica) sia percepito dai diversi attori agricoli, privati e pubblici operanti nel territorio delle vallate marchigiane dei fiumi Esino, Misa e Musone prese come area di studio. La ricerca, molto interessante, approfondisce vari aspetti attuali del settore agricolo dei quali potremo parlare in un’altra occasione. Fra i vari argomenti uno è, in questo momento, di fondamentale importanza e urgenza che riguarda l’agricoltura prevalente nella nostra zona (come d’altra parte in quasi tutta l’Italia centrale): cioè l’Agricoltura tradizionale fondata della pasta. È, invece, diversa la situazione dell’agricoltura specializzata essenzialmente nella produzione vitivinicola (non solo), con aziende posizionate sulle fasce medio alte dei mercati internazionali con valide politiche di marchio. Anche altre forme di realtà agricole imprenditoriali più piccole e nuove riescono a trovare strategie multifunzionali molto snelle spesso collegate ad agriturismo, a produzioni specialistiche di vino, olio e altri prodotti anche con moderne forme commerciali dirette e tramite e-commerce. L’agricoltura, quindi, che oggi è maggiormente in crisi, è quella tradizionale; la più importante in termini quantitativi che, ai prezzi attuali, se non cambia qualcosa, si amplieranno gradatamente le zone marginali non remunerative che saranno abbandonate modificando anche sensibilmente un altro bene importante non solo per l’agricoltura ma anche ai fini turistici, cioè il paesaggio.
A parole, sembra che finalmente si stia ricorrendo ai ripari promuovendo da parte di (quasi) tutte le organizzazioni agricole e industriali che lavorano intorno al grano e alla pasta: accordi di filiera, aiuti tecnici per migliorare i livelli qualitativi, ecc. C’è però di fondo una situazione che può essere definita “equivoca” nel rapporto della filiera grano/pasta cioè fra l’agricoltura che produce il grano e l’industria che produce la pasta.
Questa situazione equivoca è stata evidenziata in maniera plateale pochi mesi fa dall’improvvida pagina pubblicitaria che un’importante industria della pasta ha pubblicato su vari quotidiani, dichiarando a grandi lettere che “la vera pasta italiana merita i grani migliori al mondo” cioè non fatta solo con grano italiano! L’immagine come sempre è più chiara dei lunghi discorsi. Ma che senso ha, ci si chiede una pubblicità del genere? E’ in pratica una pubblicità contro il Made in Italy? Contro il grano italiano e di conseguenza autolesiva anche contro la stessa pasta italiana?
La spiegazione, a nostro avviso, è molto semplice, cioè un evidente tentativo di osteggiare, da parte
dell’industria, il progetto approvato dal governo italiano di rendere obbligatoria l’indicazione della
provenienza del grano sulla confezione della pasta: grano italiano se la pasta fatta con grano italiano oppure una soluzione diversa se la pasta è fatta con grano proviene da paesi esteri. A conferma, purtroppo, che non è stata una proposta isolata ma almeno di una gran parte del comparto, attorno a questa pagina pubblicitaria si è contemporaneamente orchestrata una campagna stampa sui vari quotidiani importanti in cui avvalorava la tesi che mettere in etichetta l’origine della materia prima sarebbe fonte di “confusione”. Si è sostenuto ad esempio che: “la qualità risiede nella trasformazione e non nella materia prima” (ma la trasformazione del grano duro in pasta soprattutto nelle grandi industrie avviene con le stesse macchine automatizzate (italiane) esportate in tutto il mondo); oppure si argomenta che “il grano italiano ha un basso contenuto di proteine”(che non è assolutamente vero: i grani italiani dalla produzione 2017 in poi hanno superato addirittura i livelli di proteine utili). E così via nel tentativo di difendere una posizione di retroguardia (cfr articolo di Dario Di Vico Corriere della Sera 09/09/2017).
Tutto questo conferma la volontà delle aziende leader quantitative della pasta italiana che vogliono continuare a comprare commodity cioè materie prima senza origine e senza identità, dove sarà più conveniente di volta in volta sui mercati mondiali. Volendo, però, far credere che la pasta italiana è quella che esce dalle loro fabbriche, anche se il grano proviene da altri paesi. Al contrario, la nuova legge è molto trasparente e soprattutto risponde a quello che il consumatore chiede oggi, cioè di conoscere tutte le informazioni su ciò che mangia compreso il paese di origine, a maggior ragione, dopo gli scandali che continuano a riguardare spesso proprio le materie prime e anche il grano duro addirittura bio proveniente da altri paesi (vedi su Internet i servizi di Report e l’operazione detta “Gatto con gli stivali”). In altri settori nel frattempo molti industriali avveduti e lungimiranti hanno capito il nuovo spirito del consumo che vuole conoscere tutto, anche il paese di origine. E ne fanno i “claim” della pubblicità anche prevalentemente sui seminativi (essenzialmente grano), che fatica molto a reggere gli attuali livelli competitivi e, ormai, non sono più in grado di remunerare le aziende, per l’insostenibilità del mercato globale delle commodity e il ruolo televisiva. Infatti, Granarolo propone “latte 100 % italiano”; i grandi Consorzi dei prosciutti di Parma e San Daniele garantiscono carne italiana; Mulino Bianco lo yogurt italiano nei suoi biscotti; Manzotin il manzo italiano e così via. Finalmente però, forse, anche il mondo della pasta si accorge che sta giocando contro se stesso. E come al solito la pubblicità lo spiega meglio di ogni discorso. Infatti, solo a pochi mesi di distanza dalla pubblicità di cui sopra, compare una pubblicità di Voiello, marchio noto di proprietà della Barilla, che termina con il messaggio finale (che è il più importante) “grano 100 % italiano”, sull’immagine di un “testimonial” molto conosciuto nel mondo attuale dei grandi chef.
Quindi, l’industria della pasta più attenta ed avanzata ha finalmente capito che scrivere “grano italiano” sarà a suo vantaggio; tanto è vero che anche altri produttori di pasta importanti, stanno seguendo questa strada. Un nuovo percorso è stato, quindi, aperto grazie alla presenza da qualche tempo con successo di paste di piccole produzioni artigianali e locali, che usano grano solo della propria azienda agricola. La prima industria della pasta italiana, che si dimostra sempre di essere l’azienda più avanzata, ha anche sospeso le importazioni del grano canadese verso il quale esiste il dubbio che il glifosate, usato a sproposito, con cui a volte viene essiccato, possa essere dannoso alla salute. Su questo aspetto si ta arrestando l’accordo bilaterale CETA fra l’Europa e il Canada perché come sostenuto da fonti governative nel dubbio deve valere “il principio della precauzione”, anche per la tutela della salute dei consumatori. Infatti, sui modi di utilizzo del glifosate non si ha, al momento, nessuna sicurezza. Anche il Senatore a vita Elena Cattaneo, nota per il suo sostegno incondizionato alle colture transgeniche e agli OGM ed addirittura molto critica con il biologico (cfr. Elena Cattaneo “Il Biologico fa bene solo a chi lo produce” – La Repubblica 21/07/2018), sul glifosate scrive che lo IARC (agenzia internazionale per la ricerca su cancro) lo classifica come “probabilmente cancerogeno” oppure “possibilmente cancerogeno” (Elena Cattaneo “Gli equivoci sul glifosate” La Repubblica 1/12/2017).
Per concludere mi sembra che si sia creata – proprio adesso in questi ultimi mesi – una situazione nuova favorevole della quale occorre approfittare attraverso i nuovi contratti di filiera fra agricoltori,centri di raccolta ed industria della pasta in grado di garantire il livello di qualità richiesto e industrie serie e interessate a lavorare nel grande percorso del vero Made in Italy – dalla materia prima al prodotto garantito per il consumatore.
È un’opportunità nuova che non va persa, nell’epoca dei “social” i tempi si accorciano e occorre intercettare per primi i nuovi trend, basati molto sui temi che riguardano la salute in tutti i settori e soprattutto in quello del cibo. Nuove possibilità, quindi,si aprono al settore agricolo, che vanno ricercate con forza, non solo, dalle organizzazioni agricole, ma soprattutto dalla Politica che con grande determinazione deve accelerare il processo che si sta sviluppando troppo lentamente.
Infatti, come afferma Paolo Barilla in una bellissima intervista a Wine News “…il rapporto con le istituzioni è molto importanti, i produttori da soli sono troppo impegnati e fanno fatica a mettersi insieme (e a pensare insieme aggiungiamo noi). Una sponda istituzionale ci allineerebbe meglio sulle azioni più significative”. Non si può escludere che i grani esteri non saranno necessari per quella percentuale di produzione mancante in Italia; ma già da subito nel nostro Paese la ricerca genetica, la sperimentazione unita ad una migliore tecnica di coltivazione sta facendo passi da gigante sul miglioramento della qualità del grano duro per cercare di uscire dal “limbo” delle commodity, avendo caratteristiche qualitative riconosciute come alcune varietà già note (vedi Aureo, Svevo, ecc.). Solo così potremo assicurare che l’agricoltura di tipo tradizionale sia economicamente sostenibile; ciò con grande vantaggio per la collettività non solo dal punto di vista alimentare ma anche ambientale con la salvaguardia dal paesaggio agricolo italiano così bello e variegato del quale noi agricoltori siamo i principali e fieri di essere custodi.
Ampelio Bucci