Ambiente, Territorio, Biodiversità e Natura Incontaminata sono termini ai quali, molto spesso, viene attribuito un significato poco coerente con l’effettivo sviluppo socio economico, a volte, anche in senso evolutivo, soprattutto se lo mettiamo in relazione all’Agricoltura attualmente praticata.
La confusione che spesso ne deriva non è solo “accademica”, ma può essere dannosa quando va a costituire la premessa sulla quale vengono articolati i vari Piani di Sviluppo Rurale, Indirizzi Economici o Programmi di salvaguardia della fauna selvatica.
Le caratteristiche ambientali che contraddistinguono le aree rurali od urbanizzate sono il frutto di trasformazione ultra millenaria, praticata dall’uomo che ha modificato ed adattato l’ambiente naturale alle proprie esigenze di sopravvivenza. La sequenza armonica, quindi, tra coltivazioni, colture legnose, spazi per l’allevamento, borghi, cittadine, ponti, strade, abbazie non è che il risultato della manipolazione umana e della ricerca del massimo sfruttamento economico dell’ambiente.
Anche l’utilizzo del termine biodiversità, oggi, forse inflazionato, è improprio: il grandissimo assortimento di specie vegetali coltivate nel territorio italiano, che tuttavia si possono ricondurre a poche categorie di alimenti, deriva dalla necessità di disporre di una ampia gamma di materiale coltivabile per sfruttare ogni estensione potenzialmente utilizzabile per produrre cibo; questo, attraverso la selezione genetica, più o meno empirica, ha prodotto nei secoli le tante varietà che conosciamo, niente a che vedere quindi con la natura incontaminata ed equilibri biodinamici.
In questo contesto l’uomo, artefice del territorio, ha cercato di sostituire non solo le specie vegetali naturali con quelle coltivate, ma anche gli animali allevati per scopi zootecnici, ed in molti casi anche la fauna selvatica allevata sia per motivi ludici che alimentari. Con questo processo evolutivo dei territori, gli spazi per gli animali selvatici si andavano restringendo, molte specie scomparvero e altre sopravvissero, altre si modificarono. Anche se non sempre, l’uomo è stato, strettamente, la causa diretta della scomparsa di alcune specie vegetali o animali. Analizzando ad esempio, areali dove l’attività umana è stata meno invasiva, come la Maremma, che in alcuni territori è rimasta “selvaggia”, Il cinghiale autoctono è scomparso già nei primi anni del ‘900, come altri ungulati, anch’essi completamente scomparsi praticamente in tutto il centro Italia; solamente i cosiddetti “nocivi” (così denominati prima della legge sulla caccia del 1977, vedi volpi, tassi, puzzole, faine, corvidi, ecc.) sono sopravvissuti, in parte, solo adattandosi a questa evoluzione e convivendo con l’uomo il territorio. Si era comunque raggiunto un equilibrio, il cui apice ha coinciso con lo sviluppo demografico dell’800, a seguito del quale l’espansione delle coltivazioni e degli allevamenti ha interessato praticamente tutte le superfici utilizzabili ad esclusione delle sole vette appenniniche. Dalla metà del’900 questo equilibrio si è rotto, o meglio se ne è creato un altro.
Lo sviluppo industriale ed il benessere conseguente, ha spostato una consistente quota della popolazione dalle campagne e dai borghi alle città e l’evoluzione delle tecniche agronomiche e della zootecnia intensiva, ha incrementato la produttività agricola, non rendendo più necessario lo sfruttamento delle aree marginali del territorio. Si è così progressivamente ricostituito un ambiente più abbandonato che naturale, nel quale alcune specie animali, per la maggior parte non autoctone, hanno avuto la possibilità di moltiplicarsi in modo non controllato, generando uno squilibrio pericoloso. Nell’ultimo quarto del ‘900, soprattutto nei paesi dell’Est Europa, la genetica ha messo a punto alcune specie per le riserve di caccia e da altri zone del Mondo ne sono state importate altre per la produzione di pelliccia o per la caccia. I casi più evidenti ed emblematici sono i cinghiali, o meglio un tipo di maiale selvatico che assomiglia ad un cinghiale, per non parlare dei caprioli, daini e cervi; fino alle nutrie. Come tutte le specie allevate, anche questi animali sono caratterizzati da elevata produttività, adattamento all’ambiente antropizzato e abitudine alla presenza dell’uomo. Tanto per fare un esempio: lo scomparso cinghiale maremmano pesava meno della metà di quello che ormai popola ogni angolo di territorio, comprese le periferie urbane, e la femmina partoriva due/tre suinetti contro i sei/otto dell’omologa moderna (che ha la stessa fertilità di una scrofa Large white). Le nutrie, messe a punto geneticamente per l’allevamento della pelliccia e rilasciate in modo sconsiderato quando gli allevamenti sono andati in crisi, hanno la fertilità tipica dei roditori ed hanno rapidamente infestato tutti i corsi d’acqua della pianura, mettendo a rischio la solidità degli argini e spazzando via ogni altra specie di mammiferi dagli ecosistemi in cui si sono insediate. Lo sviluppo esagerato della popolazione del cinghiale ha causato l’aumento della popolazione del lupo appenninico, a vantaggio di altri animali (l’istrice ed il capriolo) che, essendo animali più problematici da predare (aculei e velocità) non attraggono più di tanto il loro competitor naturale, il lupo, che trova molto più vantaggioso rivolgersi a cinghiali in branchi (striati o rossi) molto più facili da catturare.
Nella stragrande parte del territorio rurale italiano il problema più devastante è comunque quello dei cinghiali: le caratteristiche sopra descritte, il clima meno rigido, la grande disponibilità di cibo e l’assenza di nemici o competitori naturali, almeno inizialmente hanno portato ad una moltiplicazione esponenziale della specie che, dalle aree protette, dove il controllo della popolazione è molto complicato, si sono diffusi praticamente ovunque, compromettendo, spesso, l’ecosistema presente. Questi territori, insomma, non sono più in equilibrio, tanto è vero che i cinghiali si stanno diffondendo sempre più in ambienti fortemente urbanizzatiti come le città. Poiché tale disequilibrio verificatosi non è “naturale”, ma il risultato della trasformazione dell’uomo, solo e soltanto attraverso l’azione dell’uomo stesso può essere risolto. Tale problema, già da molti anni conosciuto è stato da una parte sottovalutato, dall’altra favorito per soddisfare le esigenze dei cacciatori “cinghialari” (interessi economici ed elettorali), dall’altra ancora di ecologismo super ideologizzato considerato un non problema/ fenomeno naturale. Oggi con la ricomparsa della peste suina africana presente negli allevamenti di mezza Europa Continentale con punte di 100 focolai in Romania e rilevata in alcuni cinghiali in Francia, Belgio ed in altri Stati, il fenomeno della sovra-popolazione del cinghiale potrebbe causare danni economici di difficile quantificazione.
Il Regolamento di Polizia Veterinaria (DPR 320 del 8/2/1954), infatti, prevede, appunto, per la presenza di peste suina l’istituzione di una zona infetta con conseguente eutanasia di tutti i suini presenti e la loro termodistruzione, una zona di sorveglianza ed una zona di blocco di tutte le movimentazioni!
Ma come sopra dicevamo insieme al cinghiale, si vuole far rilevare che, in alcune regioni d’Italia, anche la presenza del capriolo è diventata molto importante tanto e vero che in diverse provincie si è autorizzata la caccia di selezione per ridurne il numero. Ovviamente inutile sottolineare i danni alle produzioni agricole che ne derivalo, circa 300 milioni di euro nell’ultimo anno (così viene riportato), con il cinghiale che “ne fa la parte del leone”; tralasciando, poi, i danni da incidenti stradali, magari, non più di tanto dove risulta difficile trovare Assicurazioni che “assicurano” Enti Pubblici
Ma non è finita, la presenza del lupo appenninico fino a pochissimi anni fa relegati a pochissimi esemplari sui monti Sibillini, il Parco nazionale d’Abruzzo ed i monti della Sila oggi ha colonizzato tutti gli Appennini arrivando fino alle Alpi centrali. Ma non sarebbe nulla se non ci fosse una presenza consistente anche in aree pianeggianti. Solo nelle Marche vengo stimati ufficialmente poco meno di 200 esemplari, mentre “ufficiosamente” se ne contano circa 400. La presenza del lupo nella zona del Conero, sul livello del mare, più volte avvistato, non ha ricordi nella memoria storica nelle Marche forse nemmeno quando il leone asiatico era presente, circa 2000 anni fa, dall’altra parte dell’Adriatico, in Albania. Tale fenomeno può essere accettato in maniera entusiasmante se rimane entro dei limiti controllabili altrimenti può causare allarme sociale non rilevato più, solamente, dai pastori in alta montagna…
Potrei continuare, ricordando la presenza, in diverse zone d’Italia, di branchi di cervi o daini e dell’istrice (per inciso, queste due specie, tra l’altro introdotte dai Romani) diffuso, almeno nel centro Italia ed ora anche nelle Marche in maniera decisamente abbondante, e così di seguito. È certo che gli agricoltori preferirebbero non subire danni dalla fauna selvatica anche se un risarcimento in tempi rapidi sarebbe auspicato cosa che, troppo spesso, non avviene. Ma l’entità economica del danno subito anche se venisse immediatamente erogata difficilmente potrebbe contenere, in quanto non immediatamente quantificabile, il danno subente. Certamente questo in una coltivazione annuale non esiste, ma in coltivazione arboree (vigna: distruzione e danneggiamento delle viti; alberi da frutta: scortecciamento in tutto od in parte, ecc.) o negli allevamenti zootecnici (stress con dimagramento, calo della lattazione, aborti tardivi, utilizzo di farmaci per ferite, ecc.) sarebbe oltremodo difficile la sua quantificazione. Certo è, che anche coloro che subiscono incidenti stradali per l’attraversamento improvviso di ungulati, con danni sia alla vettura o al conducente (a volte) non saranno molto contenti che siano o meno risarciti in tempi brevi…
Il problema, però, non è la ricomparsa o la presenza di animali di cui non si aveva memoria storica, ma la loro diffusione sovra dimensionata e poco compatibile con le attività umane, siano esse quelle rurali o urbane. Ma la cosa, a mio avviso, che fa veramente riflettere, è che la Politica ancora non riesce ben a comprendere l’entità del problema ed invece di programmare in maniera precisa interventi di riduzioni della popolazione di quelle specie selvatiche che possono creare e creano “contenziosi sociali” si concentra dietro un “Elenco delle specie invasive animali e vegetali di rilevanza Unionale” (Reg. UE 1143/2014). Che può anche andare bene, ma non ne prevede in maniera chiara come bisogna intervenire, salvo il divieto di transito, vendita ed allevamento, aggiungendo la preoccupazione di chi sfortunatamente ne sia, legittimamente, già in possesso di non sapere bene come doversi comportare. Tra le altre cose chi conosce un po’ la storia di come si siano (o siano state) introdotte molte delle specie “cosiddette” invasive e conoscesse bene l’effettiva rilevanza ecologica magari vedrebbe la cosa da un’altra prospettiva. Molte delle specie animali e vegetali oggi presente in Italia od in Europa sono state introdotte dall’uomo: i fagiani “da caccia”, il daino, l’istrice, l’attuale cervo (sempre meno italico e sempre più nordeuropeo), oppure il mais, il pomodoro, le patate…. Per non parlare del lupo appenninico che oggi ha colonizzato gran parte delle Alpi, perché lui si; ed il cane procione che è arrivato dalla Siberia no? Perché l’Istrice sì è l’ibis sacro no che sta arrivando in volo?
Purtroppo molte cose (e con esse gli animali ed i vegetali) che vengono considerate tradizionali lo sono poiché sono presenti in un determinato territorio da diverso tempo; potrebbe non essere il metodo giusto da prendere in considerazione o non l’unico metodo. In conclusione, ritornando al titolo, non è un grido allarmistico ma una reale richiesta di aiuto. Esiste nelle campagne per i danni alle coltivazioni agricole o alle predazioni, esiste nelle città per gli incidenti stradali, ma potrebbe anche peggiorare, sia da un punto di vista economico che emozionale. È necessario che chi deve decidere decida, ed in fretta, in maniera pragmatica, dopo aver preso in considerazione tutti gli aspetti scientifici, culturali ed economici, ma evitando di farlo, come troppo spesso avviene sotto la spinta delle elezioni che diventeranno comunque, sempre imminenti! Inutile, quindi, nascondere la testa sotto la sabbia come lo struzzo, sperando che le cose si risolvano da sole per due semplici motivi: primo, perché lo struzzo non farebbe mai una cosa così sciocca, secondo, perché la situazione sta inesorabilmente peggiorando e prima o poi il conto dovrà essere pagato (sia in soldi che politicamente).
Di Alessandro Alessandrini